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Santangelo

Di padrone in padrone

Infatti scoppiò la guerra tra Angioini e Aragonesi: ultimo baluardo degli Angioini, nella zona, fu il condottiero Antonio Caldora, di Castel del Giudice, arroccato nella potente fortezza di Carpinone. 1442: Alfonso d'Aragona lo affrontò nella piana di Sessano e lo sconfisse. Isernia, che aveva accolto senza ostilità Re Alfonso, si guadagnò il titolo di «fidelissima», divenne città «regia» ed ebbe consistenti esenzioni fiscali. Iniziava con Alfonso il dominio aragonese: il nuovo Re fu accolto a Napoli con grandi onori. All'epoca, nelle città capitale, era presente il poeta aragonese Marino Jonata, che rimase talmente stupito da ricordare l'ingresso trionfale del Re nel suo poema El Giardeno: «Non como Alfonso re che tu say / in Napoli riceppe il triunfale / del qual maggiore non mirasti may».

I sovrani aragonesi ebbero molto riguardo per Isernia: uno statuto regolava l'economia, l'amministrazione, la giustizia della città, che rifiorì dopo il terremoto del 1456.

caldora

Fino al '600 Isernia fu una cittadina abbastanza florida: operavano aziende artigianali (mulini, ferrerie, lanifici, berrettifici, cartiere, qualche tipografia, concerie di pelli, merletto a tombolo). Non mancava una discreta circolazione della cultura, essendo Isernia ben collegata con l'Abbazia di Montecassino, Napoli e Roma, centri nei quali si formò l'isernino Onorato Fascitelli, e anche Angelo di Costanzo di Cantalupo, le cui opere riscossero unanime consenso nella repubblica rinascimentale delle lettere, Isernia, inoltre, era anche meta di villeggiatura di nobili famiglie napoletane, centro di educazione monastica e di pellegrinaggi. Masse di pellegrini affluivano al  Santuario dei SS. Cosma e Damiano fatto edificare dal Cardinale Numaio su un antico tempio del dio pagano Priapo. Ma col tempo la situazione andò degradando.

Il governo spagnolo vicereale divenne sempre più esoso; la mentalità borbonica boriosa e cialtronesca dei nobilotti spagnoli si era imposta; le attività produttive languivano; la corte e la plebe di Napoli inghiottivano tutte le risorse del Regno.

Il deficit delle casse dello Stato, arrivato a livelli astronomici, indusse il Viceré di Medina de Las Torres a «vendere» a feudatari arricchiti le città demaniali: e così Isernia, libera «università», nel 1643 fu acquistata per 41000 ducati, e divenne feudo.  Ciò non tolse, tuttavia, alla cittadinanza umiliata, la sua naturale vitalità. Gli studi fervevano, le stamperie funzionavano, come quella di Cavallo, che pubblicò, nel 1644, le Memorie historiche del Sannio, dell'arciprete G. Vincenzo Ciarlanti. Qualcosa di buono facevano anche i signorotti: ad esempio i D'Avalos a Isernia impiantarono nel loro palazzo un teatro (1646) iniziando una tradizione plurisecolare, tipica della nostra città; i d'Alessandro nel loro castello di Pescolanciano avviarono una fabbrica di apprezzatissime ceramiche dello stile di Capodimonte. Il 1656 fu un anno disastroso: una pestilenza si propagò per tutto il Reame con effetti rovinosi, come ci narra il venafrano Ludovico Valla nelle pagine drammatiche della sua Memoria della peste. Ma epidemie e carestie erano per quei tempi fenomeni ricorrenti, come quella del 1764 che annientò gran parte della popolazione isernina, senza mettere in conto l'imperversare del banditismo e i frequenti terremoti.

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